Stavo tornando dal mio giretto di
jogging serale, da Edgecombe per la 155th verso ovest fino a
Riverside, poi giù attraverso il tunnel, sopra la ferrovia e sotto l’autostrada,
per arrivare alla passeggiata lungo l’Hudson. A quest’ora il sentiero di
cemento che costeggia il fiume é un brulichio di pescatori, corridori,
ciclisti, portoricani che si grigliano di tutto e che giocano a
« pallavolo accompagnata », bambini deliranti che ti si piazzano in
mezzo, fusti neri che giocano a basket e mezze seghe bianche che cercano di
giocare a tennis. Una corsetta per smaltire un po’di questo stress che mette
addosso la città. Ogni volta che parto per questo giro serale la missione é arrivare fino al « Little Red Lighthouse », sotto il George Washington
Bridge. Per la precisione devo andare a toccare ogni volta il cartello turistico
del Lighthouse, se non lo faccio il mondo probabilemte svanirebbe, quindi
ringraziatemi. Anyway, al ritorno stava diventando parecchio buio e i lampioni-che-non-fanno-luce
della passeggiata cominciavano ad accendersi. Una volta ritornato alla 155 riprendo
la salita tosta che va verso Sugar Hill con passo di corsa leggero che, in
salita, con l’umidità di un’estate a NY e dopo la corsa già fatta equivale più
o meno alla corsa di un pachiderma sbronzo.
In cima alla salita scorgo il
solito gruppo di taxisti abusivi, i famosi taxi neri di Harlem, che come sempre
discutono animatamente in una lingua spagnoleggiante, o magari proprio lo spagnolo.
Solitamente, come in un tribunale, la discussione di due contendenti é
superviosioanta da altri taxisti in cerchio attorno ai due, una specie di
giuria dei vecchi che alla fine decide chi ha ragione e chi no. Queste, in realtà, sono tutte
supposizioni mie. Magari questi son li a parlare del tempo che fa, o della partita
della sera prima, o di quanto i taxi gialli rubino il lavoro ai taxi neri e il
regolamento di conti me lo sono solo immmaginato. Fatto sta che ogni volta che
passo da li, sarà per la fatica della corsa, sarà perché inizia a diventare
notte e tutto é più losco, l’impressione che ho é sempre la stessa. Il problema
é che col passo da zombie che mi ritrovo ad avere a quel punto della
corsa passo davanti a loro praticamente camminando, e sembra sempre che mi
fermo a farmi i fattacci loro.
Quella sera, avvicinandomi di più al gruppo di
macchine, mi accorgo che in realtà sono solo due le persone che stanno
discutendo tra di loro, in modo più animato del solito. Le loro mani si agitano
parecchio e i toni e i volumi sono piuttosto elevati. La cosa più strana però é
che la giuria di altri taxisti che di solito é presente questa volta non c’é. Lo
scuro della notte é oramai calato e quel che vedo sono solo due figure nere
alla luce di lampioni debolissimi. Mi avvicino ai due percorrendo il passaggio obbligatorio
sul marciapiede che passa proprio di fianco a loro. Avvicinandomi mi accorgo che
uno dei due si gira verso di me e allo stesso tempo smette di parlare.
Avvicinandomi ancora un po’vedo che in mano ha qualcosa che luccica alla debole
luce dei lampioni. Vedo dal bianco dei suoi occhi che mi sta fissando e ora
pure l’altro ha smesso di parlare e si é girato verso di me. Cerco di pensare che
devo accellerare il passo per fargli capire che non sono li per farmi gli
affari loro, ma le gambe non ricevono il messaggio. Mi sembra di essere
immobile, o di muovermi svolazzando nell’aria, al rallenty. Non riesco neppure
a distogliere lo sguardo da loro e dal luccichio che uno dei due ha nella mano
destra. Un istante dura una vita e mezza e tra tutte le possibili combinazioni
che posso rivelarsi vere tra « luccichio nella mano », « discussione
animata » e « West Harlem » una sola si materializza come essere
l’unica plausibile; ha im mano una pistola.
Poi il tizio si rigira, riprende a dibattere con
l’altro che pure rincomincia a parlare a voce alta, ed io ritorno
invisibile ai loro occhi. Guardo meglio e il luccichio e non é altro che un
fottutissimo mazzo di chiavi. Non so se ridere o se mettermi a piangere.
E una storia che non vorrei raccontare perché
dopo nove mesi trascorsi a New York, ad Harlem uno dovrebbe smetterla di avere
queste impressioni sbagliate, questi pregiudizi che manipolizzano il cervello e
la percezione. Uno dovrebbe interessarsi di più a registrare le cose come sono
davvero e lasciare a casa la paura. D’altra parte raccontare questa storia mi
permette di parlare di me qui ed adesso e di come non mi sento a casa, di come
sia difficile sentirsi a casa in una città schizofrenica e in costante
mutamento. Sarà perché sappiamo che torneremo in Svizzera e allora
cominciamo già a proiettarci nel nostro ritorno, non so. Probabilmente se
dovessimo rimanere a vivere a NY cercheremmo casa in un altro quartiere, dove
ci sono i nostri simili. Questo
non vuol dire che ad Harlem non si vive bene, infatti non ci é proprio mai successo
niente, per carità, é anche uno dei quartieri che preferiamo e che conosciamo
meglio. Però comincio a capire quelli che per sopravvivenza o per necessità
si rifugiano in un quartiere dove vivono i loro simili, che siano i neri di
Harlem, i portoricani di Washington Heights, gli hipster di Brooklyn, i gay di
Chelsea, le famiglie con bambini e i vecchi col cane del upper west side, i
ricchi eleganti dell’upper east side, gli artisti del east village, i figli di
papà del west village. Rifugiarsi in una definizione ed abitare il
quartiere dei proprio simili diventa un bisogno e una sconfitta allo stesso
tempo, perché vuol dire che la città ha vinto ancora.
Un’altra costatazione a partire da questa
storia é che di queste situazioni, di queste emozioni sbagliate scaturite da
vita vissuta vere sono elettrizzanti. In un certo senso creano dipendenza, sono
cool, sembra sempre di essere in un film, che sia per davvero o nella nostra
testa. New York é anche un susseguirsi di vere-falsità che fanno incazzare
e divertire allo stesso tempo. E in fin dei conti é proprio per
quest’ambivalenza che amo New York, che la odio, che l’amo, la odio.
Pure questa storia é vera solo in parte, ho
esagerato un po, ho aggiunto dettagli proprio seguendo lo stesso meccanismo per
cui la verità non é una sola, ma il modo in cui la si percepisce. In realtà ho
visto fin da subito che aveva in mano un mazzo si chiavi, ma avevo bisogno di raccontare
questo pezzo di vita qui a New York, e di farlo tra il vero e il non vero proprio per rispecchiare il modo in cui vivo queste esperienze.
Edit: vado per curiosità su google street view per vedere come é stato fotografato il posto di cui parlo qui (155th street e Amsterdam) e chi ti vedo? Loro, i taxisti dei taxi neri abusivi. Ecco così oltre che immaginarli potete anche vederli.
Edit: vado per curiosità su google street view per vedere come é stato fotografato il posto di cui parlo qui (155th street e Amsterdam) e chi ti vedo? Loro, i taxisti dei taxi neri abusivi. Ecco così oltre che immaginarli potete anche vederli.
4 comments:
Beh!
son sempre quei 10 km "decorsa".
Bravo!
...era meglio non vederli i taxisti, meglio immaginarli, come nei libri gialli quelli belli
can
can?
comunque oggi ho letto una storia sul NY times che somiglia alla mia, la copio incollo qui che poi magari il link sparisce.
A Suspicious Subway Rider
By CELESTE PLOUMIS
Metropolitan Diary
Dear Diary:
He was bad by design. Scary bad. Every move he made, every stitch of his clothing, every hair from his fade to his braids, perfectly placed to intimidate.
He was the kind of bad I singled out as a crowd entered the train where I sat knitting on my way home from work one night last month. Sitting up straight, paying attention and watching out of the corner of my eye, I kept a bead on this man while knitting nervously.
My stop is the last, and even during rush hour the subway usually empties out as I get close to home. It came down to me at one end of the car, the bad dude in the middle, and an older woman at the far end. I calculated how many seconds until the next stop as I felt him get up and approach me. Too many seconds. A couple of minutes even.
He sat down next to me. I kept knitting and looked him in the eye to stare down both him and my fear. The young man’s posture softened in spite of my hardened glare. I struggled to read his intent even as a faint smile came to his face. A few long and, for me, tense seconds passed, and his smile widened.
“My abuela did that,” he said in a sweet baritone voice, recalling his grandmother, and looking down at my busy hands. “Can I watch you for a minute?”
Per dire che non sono solo io con il mio spirito da piccolo ticinese "montanaro" che percepisce la città in questo modo.
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