Il Flusso

The Map

Monday, September 17, 2012

Rembrandt

Una passeggiata al MET, un'ora prima della chiusura, come già fatto a Chicago, tant l'é (quasi) gratis. Un giro per le sale dell'arte decorativa americana dopo il 1920, poi capitare quasi per caso su Rembrandt. La forza della pittura vecchia di secoli che é ancora lì viva e vegeta, i personaggi dipinti che ti parlano. La pittura é potente, non piatta come uno schermo, c'é un lavoro di selezione importante, una riflessione sulla tecnica, sulla conservazione che oggi ci si dimentica spesso di fare. La rappresentazione é sempre una semplificazione della realtà attraverso i criteri di chi la crea e la opera. L'epoca e il luogo in cui si opera questa semplificazione e rappresentazione della realtà devono puntare a parlare per sempre di quell'epoca, di quel luogo e di quel personaggio. Ritrarre una persona é fonte di ispirazione infinita e allo stesso tempo inesauribile. To do before leaving: tornare al MET.



Thursday, September 13, 2012

The doorman

Ieri sera, tornando a casa dopo la mia solita lezione di scherma, seduto all'entrata del nostro palazzo a Edgecombe c'è il signor doorman, che mi aveva già detto come si chiama ma me ne sono dimenticata. È il doorman della sera, arriva alle 19.00 e riparte alle 24.00 quando dà il cambio ad un altro doorman che rimane tutta la notte a guardare la nostra porta d'entrata. Sono carini questi doorman, ma anonimi. Non li conosciamo e ce ne sono che sembrano casi sociali. Il doorman di prima della mezzanotte sembra proprio simpatico, ci dice sempre "ok, allright" con la stessa intonazione e noi pure "goodnight, hello" con, immagino, sempre la solita intonazione. Ieri sera mi sono detta che il signor doorman poteva essere un modello interessante per delle foto che sto facendo per una ditta. Scrive sempre qualcosa su un quaderno il signor dorman e non fa nient'altro. Ieri ho visto però che ha uno smartphone, ma non mi sembra il tipo da giocare a angrybirds sul suo telefono. Così gli chiedo se posso fargli delle foto, racconto la mia spatafiata imparata a memoria del perché faccio queste foto e il perché non sono sicura se saranno prese il tutto in un tono amichevole, sorridendo un pò per cercare di convincerlo a cedermi i suoi diritti sulla sua immagine. Il signor doorman, che si chiama Marc ma tutti lo chiamano Mister Augustin (dal cognome), aveva uno studio di fotografia nel suo paese, prima di tornare a vivere a New York, perché dove lavorava ci sono stati problemi politici. Così gli brillano gli occhi e mi chiede se ne capisco di fotografia analogica, e mi dice che lui passava il tempo a fare fotografie in studio, tutto in bianco e nero e che era specializzato nel ritocco e colorava le fotografie con dei colori speciali. Il suo sogno, mi dice, sarebbe quello di aprire uno studio analogico qui a New York, ha comprato tutto da b&h, ha ancora un ingranditore a colori che sua moglie non sa dove mettere. Solo ora c'è il digitale e ha paura della concorrenza. Così mi fa tenerezza Mister Augustin, gli chiedo qual'è il suo paese e mi dice Haiti, "ma allora lei parla francese" dico, e così gli brillano gli occhi per la seconda volta e mi viene la pelle d'oca, e continuiamo la discussione in francese. Mi parla di macchine fotografiche a grande formato, dei colori che usa per colorare le foto, dei film che guardava al cinema ad Haiti, intona pure una canzone e si ricorda di aver visto Tarzan, Cleopatra e altri film al cinema, preceduti dall'informazione politica francese. Così io mi sento piccolina, a voler fare le foto al signor Augustin, ma cerco lo stesso, perché certa gente che si incontra per strada, sulla nostra strada va fermata, se no poi ce ne dimentichiamo e troppo spesso non lo faccio. E la discussione continua così, su Haiti di oggi e di ieri e poi ci fermiamo un attimo quando cominciamo a parlare della Svizzera e dei soldi di Haiti in Svizzera ai quali il popolo non ha accesso. È ben informato Mister Augustin e parliamo per un'ora. Poi salgo in casa, france è già arrivato dopo essere andato al cinema, prendo cavalletto e macchina fotografica digitale (ahimé) e scatto. Ma non c'è il resto, nelle fotografie. Il discorso e la lingua, perché il francese di un abitante di Haiti non è come quello di Losanna, e viaggio un pò anch'io, come lui penso, perché diceva che era un bel pò che non parlava francese, la sua lingua madre. Torno a casa, felice con la sensazione di aver ricevuto un regalo e mi domando chissà cosa nascondono tutti questi doorman, chissà che storie ci sono dietro, ed è bello poter averne un qualche scorcio, ogni tanto, e mi dico che sono fortunata, perché la fotografia, la telecamera, sono un'eccellente scusa per aprire porte che di solito restano chiuse e troppo spesso aspettiamo una scusa valida per iniziare a discutere con qualcuno, anche solo del più e del meno.


Rutto (non) libero

Ci ero già andato altre volte e già avevo notato la stravaganza e gli schemi della gente che frequenta la facoltà di giornalismo. Oggi c’erano personaggi e situazioni troppo surreali per non raccontarveli.
Con il mio bel “chicken on rice and beans” mi sono piazzato su una panca, al sole, in mezzo alla piazza pubblica. Davanti a me i Prof mangiano tutti tra di loro, hanno tutti i pantaloni lunghi e una camicia blu. Tre di loro hanno una camicia con lo stesso identico disegno a strisce blu, tanto che mi verrebbe da chiedergli se vanno dallo stesso sarto. Parlano tra di loro e il resto del mondo non esiste. Quando un Prof che guadagna di più o che si crede superiore parla ad un altro inizia la frase distogliendo lo sguardo. E una dimostrazione di potere, é più interessante guardare l’albero invece che te quando ti parlo, pirla! Un’assitente mangia con loro e guarda quasi sempre in basso, se ne sta zitto. Non solo lui stesso pensa di essere scemo, ma lo pensano pure tutti gli altri.
Sulla panca di fianco alla mia un’indiana parla indiano al telefono e poi strilla al suo amico che arriva, indiano pure lui. Lei si toglie la benda che fascia il piede e l’amico, probabilmente al primo mese di medicina, le osserva attentamente il piede e lo muove con delicatezza, come se stesse manipolando uranio. Con fare già da medico le prescrive i medicamenti, le dice che non é nulla di grave e che deve cercare di muoverlo il meno possibile, che probabilmente é solo una storta, dovrebbe stare più attenta quando fa spinning acquatico, le consiglia di seguire un altro corso di yoga aerostatico obliquo dove si usano meno i piedi. Ovviamente questa é la mia interpretazione della loro conversazioni in indiano.
Sulla panchina alla mia sinista, un ragazzo visibilmente gay mangia con una ragazza nera. Che bella coppia! Stanno seduti ai bordi estremi della panchina lasciando il massimo di spazio sulla panchina che ci si potrebbero sedere almeno quattro giapponesi. Vogliono rendere noto alla comunità intera che il loro legame é puramente di amicizia. Lo sanno anche quelli che passano in aereo sopra Manhattan talmente la distanza tra di loro é enorme. Durante la lro conversazione lui ribadisce “AI , AI, ... I don’t think that blablabla” con un tono che supera gli 8000 decibel. I prof interromopono un attimo le loro discussioni senza guardarsi per vedere chi diavolo é sto pirla che strilla come una gallina. L’amica nera annuisce e magna il suo panino.
Continuiamo con il tavolo di fronte, una stundente al primo anno ne intervista un altro più vecchio. Probabilmente un esercizio che fanno fare alle nuove matricole per iniziare ad imparare il lavoro dell’intervistatore e allo stesso tempo per integrarsi nella facoltà. Lui parla senza mai smettere, lei prende appunti e ascolta. Si atteggiano a fare gli studenti di facoltà di giornalismo. Si atteggiano.
Fa bene vedere ste cose dal fuori, chissà quante volte ho mangiato con dei prof abbassando lo sguardo o stando muto, chissà quante volte un prof che lavora con me mi ha parlato senza guardarmi negli occhi, e chissà quante volte, forse, io ho fatto la stessa cosa con gli studenti. Tutto questo mi sembrava più che normale. Le gerarchie così strutturate ti entrano dentro, inizi a parlare agli altri distogliendo lo sguardo anche quando vai dal farmacista, o a comprare il pane, o, cosa ancora più grave, con gli amici veri.
Finito il pollo con i beans e il mio mezzo litro di Sprite mi alzo, sta gente mi ha scocciato e fa caldo. Sento che dallo stomaco mi sale un bel ruttone vigoroso, di quelli belli potenti. Come vorrei librarlo nell’aere per esprimere il mio disappunto, sopra le note del gay “AI, AI”, sopra le discussioni-dimostrazione di potere, sopra l’atteggiarsi e l’appiccicarsi un ruolo che é di altri. Ma non lo faccio e me lo tengo dentro. Perché non si fa.

Tuesday, September 11, 2012

Chicago (prima parte)

Eccoci ne “IL” pub di Empire, allo Sleeping Bear Dunes National Lakeshore. Sono parecchi giorni che non scriviamo e sento che se non lo facciamo ora prima di tornare a NY non lo faremo più. Quindi ci pigliamo da bere, io una Margarita e Aline un succo di pomodoro, le french fries e butto giù qualche riga. Dove cominciare? A Chicago siamo stati molto bene e anche per quello che non abbiamo scritto, ci siamo solo goduti la città. Ci é piaciuta molto, probibilmente perché eravamo in vacanza e rilassati ma ci é sembrata meno soffocante rispetto a NY, più rilassata, la gente cordiale, i trasporti efficienti, le piste cicalbili comodissime, la paseggiata sul lago, la luna, lo skyline con il tramonto, Millenium Park. E poi tutti i posticini dove ci siam fermati a bere, magnare e ad osservre la gente.
Abbiamo alloggiato a casa di due tizi tramite il sito Airb'n'b, che mette in contatto chi dispone di una stanza con chi la cerca. Rachel e Antonio, che non abbiamo capito bene se sono una coppia o no, ci hanno ospitato in cambio di $$ per quattro notti. Antonio ci ha accolto quando siamo arrivati, e già mi stava antipatico. Parlottando in salotto, stanchi dal viaggio in treno la notte, mi chiede che cosa facevo e a NY – sociologo – e che lui in giugno 2013 diventerà neurologo. Già questo gli dava il diritto di farmi domande senza veramente interessarsi alle mie risposte, intanto che guardava la tele e controllava facebook sul computer. Quando poi si é alzato per andare in cucina a ricaricare l'iphone senza nemmeno guardarmi in faccia intanto che io parlavo l'ho bellamente e mentalmente mandato a farsi fottere. Prima di uscire di casa per andare a espolrare il quartiere il nosrto compare Antonio ci dice di non preoccuparci, di tornare all'ora che vogliamo...Uh?? Paghiamo 80 dolla al giorno ci mancherebbe che mi dici a che ora devo tornare. E chi sei? Mio padre? Probabilmente vuole solo assicurarsi che stiamo fuori il più a lungo per guardare la televisione e chekkare facebook allo stesso tempo. Il nostro secondo e ultimo contatto con il soggetto in questione avviene la sera dopo: torniamo a casa completamente fradici dopo il diluvio universale e troviamo Rachel e Antonio euforici che festeggiano a casa: Antonio ha appena suonato con il suo gruppo in un baretto locale e ci pare un bambino ubriaco e strafatto. Come ci vede ci invita a bere del rhum con lui, poi si rende conto che non ci sta dentro e che nun ce ne può fregà de meno di bere del rhum con lui e si rifugia in cucina a mangiare prima di svenire...Rachel invece sembra più simpatica ma non la rivedremo praticamente più. Vabbé, ci diciamo che non dobbiamo focalizzarci troppo su sto pirla, sulla sua ex-moglie e sulla multa che ha preso per aver bruciato un semaforo (non ce la faccio a non leggere le lettere degli altri in bella mostra sul tavolo della cucina) e di goderci lo stesso la città. In ogni caso il quartiere dove siamo - Wicker Park - ci piace molto, é una specie di Brooklyn di Chicago con baretti, negozi per cani e per bambini (nella sequenza del ciclo familiare del quartiere) e di ristoranti italiani ottimi, che testeremo i giorni dopo.
La sera che siamo arrivati andiamo a vedere una festicciola di quartiere che ci é stata consigliata da amici di amici, a Logan Square. La festicciola - block party - é carina, ci sono bancarelle di cibo e birrame e la musica migliora con l'andare della serata. Osserviamo in bambini ballare come solo loro ballano e i barboni che dormono sul prato ascoltando gruppi emergenti che fanno un po’caca. Un gruppo di brasiliani invade la festa con suoni di tamburo e sculettamenti vari – shakeshakeshakit! Un bel concerto a fine serata, rap-crossover-jurassicpark.
Il giorno dopo piove. Tantissimo. Dopo la colazione andiamo a prendere il bus e visto che piove proprio tanto ci rifugiamo in un negozietto di cornici di fianco alla fermata. Il tizio che lo gestisce é un italiano di terza generazione e ci stiamo subito simpatici. E rasato e ha il grembiule da artigiano, ricicla materiali e fabbrica cornicette e mobili di legno e vende tutto nel suo negozio, salvo la collezione di piccoli dinosauri in bella mostra su una mensola. Quando gli diciamo che parliamo italiano ci prende ancora più in simpatia, ci dice che lui non si sentiva bene con l'immagine dell'italiano emigrato negli States, tutto pasta, mafia e mitra, che suo padre é stato il primo a rompere con quell'immagine e che lui ha seguito suo padre in questo, con un lavoro atipico, eccetera, eccetera. Ci da qualche consiglio su dove uscire a bere qualcosa e dove sentire un po'di r'n'r e poi gli dico che anche i miei hanno ha una galleria e un laboratorio di cornici e passpartout per foto. Ci dice anche che per fare il turista a Chicago, o per fare il turista in generale, non bisogna per forza avere una guida e andare a vedere le cose che tutti vanno a vedere, bisogna solo conoscere la gente e capitare sulle cose, seguire le indicazioni che la gente ci da per rendere il viaggio un'esperiezna. Ci dice di non comprare una guida (parlavamo di questo perché non ne avevamo una), di andare a vedere e basta, e cosi abbiamo fatto alla fine. Sembra una sciocchezza ma spesso é vero: quando si é turisti si seguono percorsi predefiniti e si lascia poco spazio all'esperienza personale. Non é questione di volere essere originali nel proprio turismo, é questione di avere un approcio con la città vero e non predefinito o imposto. Gli do l'indirizzo del sito della galleria dei miei e ci diciamo che torneremo a salutarlo nei prossimi giorni, ma non lo faremo.
Prendiamo il bus e ci dirigiamo verso il centro, per vedere le cose che un turista deve vedere, insomma. Continua a piovere e cambiamo programma 15 volte, andiamo al visitor center per fare un giro in barca o in bus ma poi non lo facciamo, mangiamo qualcosa perché siamo affamati e giriamo la zona centrale dove ci sono i palazzoni sul fiume. Poi visto che proprio non smette di piovere andiamo all'Art Institute of Chicago per vedere la retrospettiva di Lichtenstein. Sono già le 17.30 e abbiamo solo un'ora e mezza per girare questo luogo immenso. La mostra ci piace, ma boh. Non capiamo bene perché una retrospettiva su Lichtenstein, adesso. Ci piace vedere l'acrilico sulle tele, gli originali, la forza del colore. Riflessioni su come questo lavoro sia quasi più importante oggi per una storia del marketing che non per quella dell'arte. Una sbirciata pure alla collezione di foto, troppo veloce per scriverci qualcosa.
Usciamo e continua a piovere, finiamo al Millenium park li vicino e ci dicono che tra un attimo inizia un concerto che con numerosi musicisti, la maggior parte percussionisti, e che suonaneranno tutti insieme una composizione moderna. Apettiamo e dopo un po’iniziano con rumore di vento, di pietre e di palette e tubi rotanti in giro per il parco. Il concerto é una specie di progressione, roba moderna, ok. Inizia una pioggerella leggera che diventa sempre più forte, come la musica. Quando proprio viene giù a secchiate e suonano i tamburi ci rifugiamo nei bagni sotterranei insieme ad altri ragazzi, la musica non smette e nemmeno la pioggia. Dopo una breve pausa ci rifugiamo sotto il fagiolone che oggi non riflette raggi del sole oggi ma funge da riparo per le folle di turisti colti alla sprovvista da st'aquazzone. Ma non smette e ci rifugiamo in bar a bere un té caldo. Ma non smette e prendiamo il bus di fronte al baretto che ci porta più o meno vicino a casa. Più o meno... E non smette e ci avviamo correndo sotto una pioggia mai vista –tipo tempesta equatoriale - finche oramai siamo competamente fradici e ci diciamo che, vabbé, tanto oramai siamo bagnati.
Dopo una doccia decidiamo di tornare al ristorante italiano sotto casa dove ieri avevamo mangiato gli gnocchi al radicchio e gorgonzola più buoni da 10 mesi a questa parte. Ci accoglie un cameriere che parla italiano, non capiamo bene perché ma questo inizia a farci domande, a chiederci da dove veniamo a interessarsi a noi, ha voglia di parlare. Ci dice che son tre mesi che lui é qui con il visa da turista e che torna in Italia dopodomani ma tornerà immediatamente a Chicago perché in Italia non c’é niente. Mi ricorda vagamente Troisi quando ci dice che “Cioé, a me piacciono proprio i gratttacieli, vado la e li guardo per ore” e fin qui ci poteva stare anche perché a Chicago c’é un mix di architetture moderne che é veramente interessante. Ma quando poi un cameriere di un ristorante italiano buono ci dice “E poi a me, cioé, mi piace il McDonald, tantissimo proprio” ci guardiamo perplessi. Insomma questo per dire che il sogno di andare in America e di scappare dall’Italia, o dal paese d’origine che sia, é ancora più che vivo che mai, specialmente in questo periodo di crisi prende una nuova forma e invoglia le nuove generazioni in cerca di lavoro ad andarsene come fecero i nonni dei loro nonni. E non serve tanto per dare questa voglia di partire, basta l’immagie dei grattacieli e il gusto di cheesburger che si trova solo da McDonald a creare la speranza che il meglio sia altrove. Ma poi bisogna ricordarsi che “Chi parte, sa quello che lascia, ma non sa quello che trova”.

Friday, September 07, 2012

6 settembre, nel treno, fermi chissà dove alle 2.30am

Il vagone è illuminato a giorno. O forse siamo noi che non siamo più nel mood vacanze e vogliamo solo arrivare a casa. Mi sembra tutto più scomodo, meno divertente. Ma forse è anche perché gli ultimi due viaggi in treno erano con il California Zephyr, il treno che congiunge Chicago a San Francisco a due piani, con la carrozza panoramica ecc. Niente di questo lusso ora. Siamo sul Lake Shore non so cosa e si va a New York, punto e basta. Ora il treno è ripartito e mi è anche passata l'ispirazione di scrivere. È che mi chiedevo se la città, New York, si sia accorta della nostra assenza. Mi immagino domani, noi a Penn Station a prendere la metro scazzati, tutta la gente che va o torna dal lavoro, la metro a ny è sempre piena, calda, bollente fuori e gelida dentro. Non dico che mi sia capitato di prendere la metro con la stessa gente, siamo così tanti in questa città che pensare che qualcuno si accorga della nostra assenza è semplicemente ridicolo, solo non so, mi immagino noi due domani nella metro e mi dico che sarà strano, sarà così dannatamente naturale che sarà come non essere mai partiti, e penso che quindi mi piace l'idea che la città, la città in quanto entità, si sia accorta un pochino della nostra assenza, e che in un qualche modo ci mandi un segnale, dei primi, leggeri e superflui segni di addio, alla quale ora ci prepareremo a cominciare a ricevere.

Wednesday, September 05, 2012

Primo giorno a Chicago

Appena passati i quattro giorni a Chicago. Ci siamo ripigliati, rinvigoriti, riposati, fatto il pieno di città e ora siamo scappati di nuovo, esitando, perchè Chicago ci ha stupiti.  Meravigliati, con il suo lago immenso che sembra il mare, il suo lato cosmopolita, grande, ma anche piccolo. Con i suoi grattacieli spaziati e non incollati l'uno con l'altra come a ny. Insomma, non abbiamo potuto evitare i mille paragoni con ny, e in vacanza Chicago ci è piaciuta tantissimo, una serata ci siamo pure sbilanciati a dire che ci piace più di ny, ma in realtà credo che sia il fatto delle vacanze, dell'essere tranquilli e non avere nessuna preoccupazione, se non cosa fare il giorno dopo, perchè, appunto, siamo in vacanza.

Gunnison

Quarto giorno in giro per il Colorado, oggi ci siamo spostati da Frisco, dove abbiamo alloggiato nella locanda più vecchia del paese, il Frisco Lodge, a Gunnison, dove ora ci troviamo. Siamo in un ostello un po’hippy, le tizie con tanto di cane e bambino piccolo ci hanno accolto come si accoglie qualcuno in casa propria e ora siamo svaccati nel loro salotto con i nostril piedi puzzolenti. Insieme a noi un tizio australiano che scrive un blog sulle mountain bike e che gazie a questo gira il mondo. Tra ieri e oggi abbiamo visto paesaggi che non ci saremmo mai aspettati da questo Colorado: dalla tundra rocciosa sopra i 3000 msm senza vegetazione, a montagne vulcaniche vecchie di milioni di anni, a discese ripide per autostrade curvose in mezzo alle pinete, a piccoli canoyn e rocce che sporgono dalla terra, a praterie infinite dove si raccoglie il fieno e si fanno pascolare mandrie di vacche enormi. È impossibile non fermarsi un attimo per respirare l’aria di questi posti e per apprezzare i paesaggi senza il rumore di sottofondo della nostra macchinina ridicola. Infatti ci fermiamo spesso e per fare 2 ore di strada ce ne mettiamo 4. La prima sosta é stata la cittadina di Leadville, una volta la seconda città più grande del Colorado e ora una cittadina simpatica con la classica Main street con negozi e ristoranti e le varie casette e catapecchie subito dietro. Dopo un giretto in un negozio di pietre e un altro di vestiti in polyester fatti dai locals per le persone che vogliono partire a fare escursioni (siamo pur sempre a 2 miglia sms = 3200msm), ci siamo diretti al visitor center. Una signora molto truccata ci ha consigliato di fare un giro delle miniere che una volta erano il motivo principale per venire a Leadville : l’oro, l’argento e poi lo zinco ed altri minerali ancora. La signora molto truccata ci vende un giornaletto a un dollaro con una “specie di cartina artistica” e le informazioni per sapere cosa c’era una volta su quei terreni. Il giro che facciamo, perdendoci grazie alla cartina “artistica” e domandando ad altre persone, perse pure loro, dove eravamo, é stato pure una sorpresa. In queste ex-miniere sono stati scovati milioni e milioni di dollari di oro all’epoca che fu. Decine e decine di minatori sono morti e si dice che i loro fantasmi vaghino ancora per questi siti. Dopo un po’però i resti delle miniere sembrano tutti uguali, decidiamo quindi di tornare sulla strada principale e di continuare il viaggio. Ci fermiamo a fare pic nic con lo stesso pane e lo stesso prosciutto da tre giorni in riva al fiume Arkansas dove ci sono frotte e frotte di trote che mi piaceremebbe pescare, ma non ho niente con me per farlo e nemmeno la licenza. Mi limito quindi ad insultarle.
Poi ripartiamo. La sosta successiva é Hot Sulphur Springs, il nome dice tutto quello che c’é in questa città: le terme. Oltre a quello c’é pure un diner con i tavoli all’aperto. Ci fermiamo per uno smoothie alla banana e fragole buonissimo e rinfrescante. I paeseggi sono variati, le rocce emergono dalla terra in obliquo, si intravedono principi di canyon e delle montagne di sabbia erose da fiumi e laghi. Un cartello appeso alla finestra del diner dice che un cane con un nome da persona che non ricordo é scoparso e di rivolgersi al candy shop se lo si ritrova. Anche i cani non ce la fanno a vivere in un posto del genere. Andiamo a veder il candy store che é proprio vicino al diner, e dove sennò? Anche perché la via dopo il villaggio é finito. Ci sono caramelle di tutti i tipi, quelle cioccolatose ci tentano ma poi scopriamo la saletta di quelle zuccherose. Ce ne sono a forma di roccia, orsetti, dentiere, serpenti. La maggior parte sono di produzione locale anche se assomigliano a caramelle commerciali. Un papà con due figli anche loro nel negozio non riescono a decidere quali prendere e noi nemmeno. Alla fine optiamo per quelle all’anice a forma di black bear e quelle a forma si sasso bianche e nere alla liquirizia. E le mentine che adesso che ci penso non so più dove sono finite. Ah, ce le ha Aline, tutt’apposto.
La signora che vende le carammelle che ha perso il cane ci da qualche consiglio su cosa andare a vedere in giro per il Colorado. Una volta che le diciamo che veniamo dalla Svizzera ci dice di andare a vedere “little Switzerland”, ma alla fine non ci andremo perché realizzeremo di avere un giorno in meno di quello che pensavamo. Ripartiamo dalla città dopo aver scattato un milione di fotografie con scritte di Motel e montagne rocciose sull sfondo, direzione Frisco. Che non é San Francisco ma proprio Frisco.